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domenica 3 ottobre 2010

Diario fuori bordo


Mastro  Peppino

Era d’inverno e il sole s’era già coricato da un bel po’, ce ne stavamo vicino alla sua vecchia stufa di ghisa come pulcini alla chioccia. Pochi ciocchi di legno e un bel calore a discorrere. Questa è la foto di mastro Peppino a me più cara nel mio album dei ricordi.
Quando si saranno diradati gli ultimi echi della mostra d’agosto, smaltita la sbornia di file di folla, di inesauribili spiegazioni, di foto, di firme, interviste,  riprenderanno le veglie insonni consumate al tornio di un’idea, di una realizzazione elaborata nella mente, ma che le mani non hanno ancora partorito. L’ansia vince le albe, le batte sul tempo perché ogni gestazione desìa il suo parto. Ritornano quindi le mani ai legni d’ulivo, di castagno, di noce; risuonano gli strumenti la loro cadenza; si rianima la potiχa: mastro Peppino è al lavoro.
Sedeva egli in piazza il suo meritato riposo, coi compari a districarsi nell’intricata  sipala delle  paesane discussioni, in sottofondo il fruscio dell’ Amello. Un giorno mastro Peppino lascia piazza compagni e parole e risale all’antica potiχa di famiglia,  spazza via la polvere dell’inerzia e dell’abbandono e si rimette all’opera.
È un ritorno.  Al suo mestiere, alla scuola del padre, al telaio della madre, al catuso della trama lunghissima delle trecce di cannavu e di jìnestra pazientemente passate al pettine, ai mestieri disusi, agli strumenti dismessi, alla saitta del mulino, alla mastra del trappeto, al carro, ai pirùaci, alle tocche, ai carici, al nodo di salomone, agli anelli magistralmente incatenati, ai ricordi più antichi, agli affetti più intimi, alle persone più care.
Il legno è la sua materia prima, l’opera in potenza che attende solo di essere tirata fuori dal suo involucro, l’arte nascosta sotto l’ostinata corteccia che l’avvolge. La consumata perizia delle mani soppesa il legno, gli occhi ne studiano le venature e con certosina meticolosità, un tocco alla volta, il lavoro si  compie.
La  potiχa di mastro Peppino si affaccia sulla strada e con la sua menzina superiore aperta è una finestra spalancata su un mondo oramai tramontato, su fatiche e abilità smarrite, su ricordi abbandonati lungo il sentiero del tempo. Anche l’antico prozio, prematuramente morto, vive una seconda esistenza per compensare la prima negatagli dal destino. Uno schizzo su un semplice e fragile pezzo di carta ha strappato all’oblio un volto, ne ha salvato i contorni altrimenti cancellati. Condannato ad essere dimenticato prima degli altri e più degli altri, li sopravvive.
La vita ha consegnato al pronipote questo  testimone, ha reso egli stesso testimone di un mondo e mastro Peppino, con coscienza e caparbietà, svolge sino in fondo il suo ruolo. Soffermiamoci, in questa sera d’inverno avanzato, alla sua potiχa, scaldiamo il nostro animo al tepore di un tempo che è stato e che può continuare ad essere.
Le sue opere in legno necessitano di un ultimo passaggio:l’antitarlo contro il disinteresse e la dimenticanza. Un’ ultima mano che spetta a noi dare,  ed allora, solo allora, l’opera di mastro Peppino sarà compiutamente compiuta.
Agosto 2010                                              Mimmo  Catania

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