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martedì 5 ottobre 2010

carcara


Carcara
 L’etimo latino spiega che la “fornax calcaria” è la fornace della calcina: la pietra calcificata che cotta appunto nella “carcara” veniva poi utilizzata nelle costruzioni delle case dopo essere stata sciolta in un apposito fossato con l’acqua. La “carcara” vera e propria è perciò quella ancora esistente a Sambiase di Lamezia Terme. 
Per estensione si sono chiamate anche carcare le fornaci ,abbastanza diffuse nei paesi, per la cottura dei laterizi e degli “argagni”: graste, teglie, salaturi, tiasti e simili.
Anche Dasà aveva la sua carcara, apparteneva alla famiglia di Ciccio Vetrò, mio nonno acquisito. La figlia Marianna Vetrò, mia suocera, ha lavorato tanti anni alla carcara del padre e mi ha spiegato che …
Innanzitutto veniva scavata la creta (bianca per le tegole, rossa per i mattoni) con zappe e picconi, si trasportava sulla testa delle donne con le ceste e si lasciava poi calìjare alcuni giorni. Quando ntostava si ammojava ‘nto mitraru (una fossa quadrata che si riempiva d’acqua fino a che la creta non s’mbbonava bene).
‘nto mitraru la creta si manijava con la pala, s’mpaticava come l’uva nel palmento fino a renderla una pasta uniforme e pronta per la lavorazione.
Sul bancone di lavoro si spargeva rina fina affinché la creta non si appiccicasse (come la farina nella madia quando si schiana il pane). La creta doveva essere netta: si c’era lordìa u mattuni si spaccava. Negli appositi muadula (le forme) si carcava la creta con le mani e si passava una cordèja di spagu torciuito intorno allo stesso modulo per staccare la creta dalla sua forma ( a finestra per i mattoni).
 Bisognava quindi lasciare asciugare i laterizi così lavorati (sino a mille al giorno) facendoli calìjare al sole per qualche giorno. Si disponevano per terra in fila ordinate come un esercito di soldatini di bambini, un muro posto in orizzontale, un tetto senza muri. Quando erano mezzi asciutti i laterizi si gabbittavanu: s’incastèjavanu perché occupassero meno spazio e fossero più facilmente copribili in caso di minaccia di pioggia: non c’erano i teloni di plastica e per riparare 1000 visuli bisognava coprirli con 1000 ceramìji.
Le giornate di pioggia erano le ferie imposte dalla natura, non si poteva lavorare. Se l’acqua scorcciava i laterizi non ancora cotti, questi si facevano tignusi, parianu du vajìualu e si dovevano squagliare di nuovo, tornare tutto d’accapo
Finalmente, quando il numero dei laterizi era sufficiente per una infornata si arrivava alla carcara, alla fornace alta sino a cinque metri e larga circa due metri. Sotto andavano i mattuni, tre, quattro suali; nel mezzo i ceràmiji, altri quattro cinque suali; sopra i visuli larghi (per foculari e furni) e stritti per i pavimenti delle case e i pignati forati per i quinti e le timpiate delle case.
Continua …
Continua il lavoro di questa piccola industria di sola fatica umana (di braccia, di gambe, di teste, di sudore) mischiata alla terra, al sole, al fuoco.
Nella carcara si cucinavano anche pignati pa’ suriaca, grasti, cortari, guazzi realizzati nella zona, cioè al di fuori del nostro ciclo produttivo concetrato sui laterizi.
Noi facevamo anche brìasti di taju che non andavano cotti nella carcara: terra, acqua, sole e, ogni tanto, della paglia per aggregare meglio questo mattone naturale, pesante, compatto, ma molto buono per isolare le nostre case dalla calura del sole e dai rigori del freddo.
Il fuoco della carcara a Sambiase, la fornace della calce,  sapeva di inferno dantesco: doveva essere molto forte e durare diversi giorni per arrivare a cuocere la calce viva. I laterizi della nostra carcara necessitavano di una cottura più leggera: solo ventiquattrore di fuoco costante. Tant’è che vi si arrostivano le patate, i pepi e ‘i vijiozza cu na sula fusca.
A vucca da furnaci si chiudeva cu nu timpagnu ‘i crita; la sua base invece era fatta da un manufatto nu sualu di taju pieno di fori per far passare il calore: come la padella delle caldarroste. Il fuoco andava appicciatu e civatu avendo accortezza di non fare molto fumo per non annigricare i mattuna. Per controllare la cottura bisognava addunarsi ai quadriatti, i visuli messi in alto: quando erano rossi erano finalmente cotti.
I laterizi si  lasciavano raffreddare per tre, quattro giorni, salvo che ci fosse una commessa urgente per cui si arrivava a sfornarli ancora caldi con l’aiuto di piazzi.
Giungeva la ricompensa di tanto lavoro: 100, 1.000, 10.000 lire a seconda delle epoche e del numero dei pezzi venduti. In tempo di guerra non circolavano le lire. 1.000 mattoni valevano nu tumanu di ranu, 100 ciaramìji nu stuppìaju ‘i suriaca, 50 visuli nu quartu ‘i migghju.
Dalla carcara di Ciccio Vetrò sono usciti i mattoni e le tegole di tantissime case di Dasà, dei paesi vicini e anche più lontani: avevamo commesse anche da Mileto, Francica.
Oggi la carcara non fuma più la sua fatica umana, non sforna più i suoi laterizi che sopravvivono sui tetti e nei muri delle nostre case. A carcara giace dimenticata più in giù del cimitero, nascosta da macerie e sipali intricati. Il progresso l’ha superata, cancellata persino dalla memoria, solo il nome del luogo le sopravvive.
I ceramìji hanno lasciato il posto all’eternit: i manufatti naturali sono stati soppiantati dai prodotti industriali, freddi d’inverno, caldi d’estate e cancerogeni tutto l’anno.
Quanto regresso nel nostro progresso.
Mimmo Catania

3 commenti:

  1. Molto interessante.Complimenti e complimenti per l'apertura del blog.
    a presto peppi Giogà

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  2. grazie per la consueta gradita e affettuosa attenzione
    mimmo

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  3. Prima di accastejare (i mattumi,visuli e ciaramidi) si rifilavanu per togliere qualche imperfezione causata dallo spago.
    Questa operazione la ricordo perfettamente.
    Ciccio Vetrò nipote di quel Ciccio Vetrò proprietario della carcara.

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