Aperto il sabato pomeriggio.

Su prenotazione : tel. 0963353472.

Se siete a Dasà chiedete dei volontari in loco.

lunedì 11 ottobre 2010

toponomastica segue


parole   greche

Pentadattilo        pentedàktylos    cinque dita
Stilo                   stùlos                 colonna
Spilinga             spèlugga            grotta
Papaglionti      papàs Andreas        don Andrea
Dinami        dunàmeos             potenza
Calimera         kalemeron     buon giorno
Calispera         kalespèra          buona sera
Galatro       chàradros             burrone
Nao             naòs                  tempio

-       à
-       às ( - άς )
abbondanza di alberi

paese                                         alberi
Caridà                                               noceto
Dasà                                                 zona boscosa
Melicucc                  luogo di melicucchi, cioè bagolari
Cardà                                                cardeto

-       aci – ace
-       àkion ( - άkιον )
diminutivo
  Monasterace                               piccolo convento
                Riace                                             piccolo ruscello
Gerace                                                       falchetto
Colaci                                                        nicolino
-       ico – ica
-       ikòs ( - ιkòς )
possesso
paese                                       possesso di un
               briatico                                                briatis
               francica                                               franco

 





giovedì 7 ottobre 2010

- adi
- àdes ( - άδες )
discendenti di una famiglia

paese famiglia
Jonadi Jonà
Ricadi Riga
Limbadi Limbà



- oni
- ones ( - ωνες )
discendenti di un capostipite

paese capo della famiglia
Candìdoni Candido
Conìdoni Conidi
Mandaràdoni Mandarano
Pannàconi Pannaci
Stefanàconi Stefanaci

forma abbreviata
paese abbreviazione in greco famiglia di
Triparni Tripàroni Trupàrones Trupàres
Rosarno Rosàroni Rusàrones Rusàris
Gerocarne Gerocàrone Jerakàrones Jerakàri

mercoledì 6 ottobre 2010

toponomastica


Toponomastica

Il 13 di agosto del corrente anno abbiamo presentato al Museo un nuovo argomento/sezione: la toponomastica: lo studio dei nomi dei luoghi.
La serata si è sviluppata con la seguente scaletta:
toponomastica regionale
toponomastica locale
itinerari regionali e locali
relazione storica sullo Stato di Arena dell’ing. Antonio Tripodi
serie fotografica sui mezzi di trasporto di uomini e donne.

Per la toponomastica regionale si è fatto riferimento al testo: “Calabria e Salento   Saggi di storia linguistica”   di  Gerhard Rohlfs.
La toponomastica è una luce su quella parte di storia così antica da non avere altro documento se non quello dato proprio dal nome del luogo. I nomi dei luoghi possono sovente indicarci a chi apparteneva originariamente quel posto,  a quale famiglia, a quale capostipite, chi ne era il possessore, le caratteristiche del luogo, la presenza di alberi od altre piante, la morfologia del terreno e così via.
La toponomastica è perciò una carta d’identità dei luoghi.
Fondamentale è la parte finale dei nomi.
- adi ed  – oni sono desinenze greche ( sfondo celeste ) dalle quali ricaviamo i nomi delle famiglie o del capofamiglia che hanno fondato un centro abitato.

martedì 5 ottobre 2010

carcara


Carcara
 L’etimo latino spiega che la “fornax calcaria” è la fornace della calcina: la pietra calcificata che cotta appunto nella “carcara” veniva poi utilizzata nelle costruzioni delle case dopo essere stata sciolta in un apposito fossato con l’acqua. La “carcara” vera e propria è perciò quella ancora esistente a Sambiase di Lamezia Terme. 
Per estensione si sono chiamate anche carcare le fornaci ,abbastanza diffuse nei paesi, per la cottura dei laterizi e degli “argagni”: graste, teglie, salaturi, tiasti e simili.
Anche Dasà aveva la sua carcara, apparteneva alla famiglia di Ciccio Vetrò, mio nonno acquisito. La figlia Marianna Vetrò, mia suocera, ha lavorato tanti anni alla carcara del padre e mi ha spiegato che …
Innanzitutto veniva scavata la creta (bianca per le tegole, rossa per i mattoni) con zappe e picconi, si trasportava sulla testa delle donne con le ceste e si lasciava poi calìjare alcuni giorni. Quando ntostava si ammojava ‘nto mitraru (una fossa quadrata che si riempiva d’acqua fino a che la creta non s’mbbonava bene).
‘nto mitraru la creta si manijava con la pala, s’mpaticava come l’uva nel palmento fino a renderla una pasta uniforme e pronta per la lavorazione.
Sul bancone di lavoro si spargeva rina fina affinché la creta non si appiccicasse (come la farina nella madia quando si schiana il pane). La creta doveva essere netta: si c’era lordìa u mattuni si spaccava. Negli appositi muadula (le forme) si carcava la creta con le mani e si passava una cordèja di spagu torciuito intorno allo stesso modulo per staccare la creta dalla sua forma ( a finestra per i mattoni).
 Bisognava quindi lasciare asciugare i laterizi così lavorati (sino a mille al giorno) facendoli calìjare al sole per qualche giorno. Si disponevano per terra in fila ordinate come un esercito di soldatini di bambini, un muro posto in orizzontale, un tetto senza muri. Quando erano mezzi asciutti i laterizi si gabbittavanu: s’incastèjavanu perché occupassero meno spazio e fossero più facilmente copribili in caso di minaccia di pioggia: non c’erano i teloni di plastica e per riparare 1000 visuli bisognava coprirli con 1000 ceramìji.
Le giornate di pioggia erano le ferie imposte dalla natura, non si poteva lavorare. Se l’acqua scorcciava i laterizi non ancora cotti, questi si facevano tignusi, parianu du vajìualu e si dovevano squagliare di nuovo, tornare tutto d’accapo
Finalmente, quando il numero dei laterizi era sufficiente per una infornata si arrivava alla carcara, alla fornace alta sino a cinque metri e larga circa due metri. Sotto andavano i mattuni, tre, quattro suali; nel mezzo i ceràmiji, altri quattro cinque suali; sopra i visuli larghi (per foculari e furni) e stritti per i pavimenti delle case e i pignati forati per i quinti e le timpiate delle case.
Continua …
Continua il lavoro di questa piccola industria di sola fatica umana (di braccia, di gambe, di teste, di sudore) mischiata alla terra, al sole, al fuoco.
Nella carcara si cucinavano anche pignati pa’ suriaca, grasti, cortari, guazzi realizzati nella zona, cioè al di fuori del nostro ciclo produttivo concetrato sui laterizi.
Noi facevamo anche brìasti di taju che non andavano cotti nella carcara: terra, acqua, sole e, ogni tanto, della paglia per aggregare meglio questo mattone naturale, pesante, compatto, ma molto buono per isolare le nostre case dalla calura del sole e dai rigori del freddo.
Il fuoco della carcara a Sambiase, la fornace della calce,  sapeva di inferno dantesco: doveva essere molto forte e durare diversi giorni per arrivare a cuocere la calce viva. I laterizi della nostra carcara necessitavano di una cottura più leggera: solo ventiquattrore di fuoco costante. Tant’è che vi si arrostivano le patate, i pepi e ‘i vijiozza cu na sula fusca.
A vucca da furnaci si chiudeva cu nu timpagnu ‘i crita; la sua base invece era fatta da un manufatto nu sualu di taju pieno di fori per far passare il calore: come la padella delle caldarroste. Il fuoco andava appicciatu e civatu avendo accortezza di non fare molto fumo per non annigricare i mattuna. Per controllare la cottura bisognava addunarsi ai quadriatti, i visuli messi in alto: quando erano rossi erano finalmente cotti.
I laterizi si  lasciavano raffreddare per tre, quattro giorni, salvo che ci fosse una commessa urgente per cui si arrivava a sfornarli ancora caldi con l’aiuto di piazzi.
Giungeva la ricompensa di tanto lavoro: 100, 1.000, 10.000 lire a seconda delle epoche e del numero dei pezzi venduti. In tempo di guerra non circolavano le lire. 1.000 mattoni valevano nu tumanu di ranu, 100 ciaramìji nu stuppìaju ‘i suriaca, 50 visuli nu quartu ‘i migghju.
Dalla carcara di Ciccio Vetrò sono usciti i mattoni e le tegole di tantissime case di Dasà, dei paesi vicini e anche più lontani: avevamo commesse anche da Mileto, Francica.
Oggi la carcara non fuma più la sua fatica umana, non sforna più i suoi laterizi che sopravvivono sui tetti e nei muri delle nostre case. A carcara giace dimenticata più in giù del cimitero, nascosta da macerie e sipali intricati. Il progresso l’ha superata, cancellata persino dalla memoria, solo il nome del luogo le sopravvive.
I ceramìji hanno lasciato il posto all’eternit: i manufatti naturali sono stati soppiantati dai prodotti industriali, freddi d’inverno, caldi d’estate e cancerogeni tutto l’anno.
Quanto regresso nel nostro progresso.
Mimmo Catania

domenica 3 ottobre 2010

Diario fuori bordo


Mastro  Peppino

Era d’inverno e il sole s’era già coricato da un bel po’, ce ne stavamo vicino alla sua vecchia stufa di ghisa come pulcini alla chioccia. Pochi ciocchi di legno e un bel calore a discorrere. Questa è la foto di mastro Peppino a me più cara nel mio album dei ricordi.
Quando si saranno diradati gli ultimi echi della mostra d’agosto, smaltita la sbornia di file di folla, di inesauribili spiegazioni, di foto, di firme, interviste,  riprenderanno le veglie insonni consumate al tornio di un’idea, di una realizzazione elaborata nella mente, ma che le mani non hanno ancora partorito. L’ansia vince le albe, le batte sul tempo perché ogni gestazione desìa il suo parto. Ritornano quindi le mani ai legni d’ulivo, di castagno, di noce; risuonano gli strumenti la loro cadenza; si rianima la potiχa: mastro Peppino è al lavoro.
Sedeva egli in piazza il suo meritato riposo, coi compari a districarsi nell’intricata  sipala delle  paesane discussioni, in sottofondo il fruscio dell’ Amello. Un giorno mastro Peppino lascia piazza compagni e parole e risale all’antica potiχa di famiglia,  spazza via la polvere dell’inerzia e dell’abbandono e si rimette all’opera.
È un ritorno.  Al suo mestiere, alla scuola del padre, al telaio della madre, al catuso della trama lunghissima delle trecce di cannavu e di jìnestra pazientemente passate al pettine, ai mestieri disusi, agli strumenti dismessi, alla saitta del mulino, alla mastra del trappeto, al carro, ai pirùaci, alle tocche, ai carici, al nodo di salomone, agli anelli magistralmente incatenati, ai ricordi più antichi, agli affetti più intimi, alle persone più care.
Il legno è la sua materia prima, l’opera in potenza che attende solo di essere tirata fuori dal suo involucro, l’arte nascosta sotto l’ostinata corteccia che l’avvolge. La consumata perizia delle mani soppesa il legno, gli occhi ne studiano le venature e con certosina meticolosità, un tocco alla volta, il lavoro si  compie.
La  potiχa di mastro Peppino si affaccia sulla strada e con la sua menzina superiore aperta è una finestra spalancata su un mondo oramai tramontato, su fatiche e abilità smarrite, su ricordi abbandonati lungo il sentiero del tempo. Anche l’antico prozio, prematuramente morto, vive una seconda esistenza per compensare la prima negatagli dal destino. Uno schizzo su un semplice e fragile pezzo di carta ha strappato all’oblio un volto, ne ha salvato i contorni altrimenti cancellati. Condannato ad essere dimenticato prima degli altri e più degli altri, li sopravvive.
La vita ha consegnato al pronipote questo  testimone, ha reso egli stesso testimone di un mondo e mastro Peppino, con coscienza e caparbietà, svolge sino in fondo il suo ruolo. Soffermiamoci, in questa sera d’inverno avanzato, alla sua potiχa, scaldiamo il nostro animo al tepore di un tempo che è stato e che può continuare ad essere.
Le sue opere in legno necessitano di un ultimo passaggio:l’antitarlo contro il disinteresse e la dimenticanza. Un’ ultima mano che spetta a noi dare,  ed allora, solo allora, l’opera di mastro Peppino sarà compiutamente compiuta.
Agosto 2010                                              Mimmo  Catania